Ceci e baccalà
Qualche anno fa
vi fu una dura polemica su una promozione del giudice Paolo Borsellino, poi
barbaramente ucciso pare dalla mafia. La polemica non si incentrò sulla figura
del magistrato, la cui onestà era evidente anche a chi non voleva vedere, bensì
sulle modalità di nomina e fu innescata da Leonardo Sciascia. Ora, pensare che
uno scrittore dell’onestà intellettuale e dell’intelligenza di Sciascia potesse
aver accusato genericamente i ‘professionisti dell’anti-mafia’ infilando nel
mucchio Falcone e Borsellino sembra una nota stonata, una stecca, qualcosa che
stride con le sue continue e più che lungimiranti denunce. Il fondatore del
giornale la Repubblica, Eugenio Scalfari, ovviamente prese la palla al balzo
per cercare di gettare discredito sullo scrittore siciliano che aveva
addirittura avuto l’imprudenza e l’impudenza di dare ascolto a Marco Pannella,
uomo politico di grande levatura morale e intellettuale che amava ripetere ‘P2,
P38, PScalfari’, slogan che presumibilmente non lusingava più di tanto il
fondatore di quello che in pochissimi anni è divenuto uno tra i più importanti
e potenti giornali italiani. Sciascia non ebbe bisogno di protezioni politiche
per rispondere e ovviamente lo fece con la sua più che temibile spada, la
penna, o se si preferisce la macchina da scrivere, che utilizzava con una
maestria a dir poco geniale e degna della migliore tradizione letteraria
italiana, che include Dante e Manzoni e certamente non qualche direttore di
giornale in cerca di gloria intellettuale e letteraria che ovviamente i posteri
non gli tributeranno se non in quanto, appunto, fondatore di un giornale. Sciascia
rispose, ma prima ancora disse, espresse un dubbio di natura formale da
grandissimo conoscitore della legge, di meccanismi contorti, dello Stato, che
lui scriveva con la minuscola, ‘stato’ e giustamente mai ‘Stato’, e dell’umana
natura. Egli scrisse che Borsellino era stato promosso in modo poco rispettoso
della consuetudine al punto che l’organismo preposto a tali affari ebbe la
necessità di giustificare per iscritto tale meccanismo che violava l’ortodossia.
Attenzione, disse il Grillo Parlante siciliano, questo è fatto molto grave,
bisogna fare in modo che la regola, in cose tanto delicate, sia palese, non
lasci adito a dubbi e interpretazioni personalistiche. Aveva capito,
ovviamente, che quella promozione di Borsellino era il preludio alla non
promozione di Falcone e della creazione di una sorta di meccanismo al di sopra
di ogni sospetto e al di fuori di qualunque forma democratica che era il
cosiddetto pool antimafia. Chissà perché in Italia quando qualcosa non si vuole
definire in modo netto, chiaro, trasparente viene celato dietro una parola
straniera, ‘pool’. E questa volontà di celare, di opacizzare Sciascia l’aveva
capita da prima ancora che si cominciasse ad utilizzare la parola straniera. Non
soltanto ma aveva denunciato a chiare lettere che, una volta tolti i veri
giudici antimafia, l’azione di tale organismo sarebbe stata inglobata nelle
consuetudinarie relazioni tra Stato e mafia, senza dirlo in modo troppo
esplicito, ma aprendo uno spiraglio e prevedendo quello che oggi è più che
evidente, se si hanno occhi che vogliono vedere e non un’ottima vista con
scarsa volontà di visione. Egli disse che le procedure sono importanti e
preconizzò che l’antimafia sarebbe miseramente fallito se non vi fosse stata l’intenzione
della trasparenza perché la mancanza di meccanismi limpidi porta all’immunità,
all’intoccabilità e dunque alla mancanza di qualunque forma di controllo
democratico. Cosa che è puntualmente avvenuta. Con la morte di Falcone e
Borsellino il pool si è disgregato, la lotta si è placata e i professionisti
dell’antimafia hanno trovato terreno di coltura presso una fittissima rete
internazionale di enti ed organizzazioni create per combattere le mafie, ma di
Falcone e Borsellino c’è rimasta la memoria, il ricordo e qualche fondamentale
indagine che però si è poi scontrata contro il muro di gomma del secolare rapporto
tra politica, religioni e mafie ampiamente denunciato da Sciascia. Lo scrittore
siciliano aveva semplicemente svolto la sua funzione di Grillo Parlante, ad
essere schiacciati sono stati i magistrati e le forze dell’ordine che
combattono e che agiscono concretamente, giorno per giorno per combattere l’illegalità
nel nostro BelPaese e lui, ovviamente, s’è beccato il marchio infamante dell’attacco
all’antimafia e ai suoi martiri, gli anatemi lanciati da chi ha sempre negato l’esistenza
della mafia finché è divenuto di moda, elemento necessario alla credibilità,
affermarne la presenza anche nei gangli vitali dello stato, o dello Stato che
scriver si voglia.
Questa ricetta,
semplice di sapore e laboriosa nella preparazione, e tradizionalmente cucinata
di venerdì nella provincia di Roma, è ispirata alla apparente semplicità, alla
densità delle parole di Leonardo Sciascia, che richiedono una profonda, netta e
limpida onestà intellettuale per essere appieno comprese e amate.
Ceci
Acqua
Rosmarino
Timo citronella
Sale integrale
Olio
extravergine di oliva
Baccalà
A piacimento
aglio e peperoncino
Dissalare bene
il baccalà o comprarne di già dissalato o farsene dare un pezzo dalla Suocera o
da chi lo abbia dissalato per bene. Lessare i ceci in abbondante acqua con
rosmarino e timo citronella, dopo averli fatti rinvenire per una notte in
abbondante acqua tiepida per almeno il doppio o il triplo del loro volume. In
una padella far scaldare l’olio, aggiungervi il baccalà eventualmente spellato,
quindi aglio e peperoncino se piace, dopo poco anche i ceci lessati e
lievemente salati e un rametto di rosmarino fresco. Far cuocere a fuoco
medio-alto.
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