Insalata di
frutta con Parmigiano Reggiano
Si fa un gran
parlare, finalmente, dell’incapacità tutta italiana di parlare, e soprattutto
di scrivere, la propria lingua. Anni di scuola non sortiscono generalmente i
risultati sperati e i docenti universitari hanno finalmente lanciato un appello
affinché il governo prenda atto dell’analfabetismo della popolazione e ponga
rimedio. Difficile compito, oggettivamente, per politicanti che raramente hanno
un livello culturale superiore a quello che si potrebbe ottenere dopo la
frequentazione delle medie e che da anni distruggono sistematicamente e quasi
con precisione chirurgica la scuola italiana. Ultima in ordine di tempo la
cosiddetta ‘buona scuola’ che ha portato le pochissime eccellenze resistenti
sul territorio nazionale a fronteggiare notevoli difficoltà, tra cui, ad
esempio, quella di non poter svolgere ore di laboratorio pratico necessarie all’acquisizione
delle competenze necessarie per l’ingresso nel mondo del lavoro nello splendido
istituto Grue di Castelli, in Abruzzo, in un momento storico in cui qualunque
Paese civile fa esattamente il contrario, aumentando le ore di attività concreta,
partendo dalla pratica per apprendere la teoria il governo cosa fa? Ovviamente
mortifica e rende l’azione innovativa e fondamentale della trasmissione di arti
e mestieri che costituiscono il vero tesoro alla base dell’inimitabile qualità
italiana quasi impossibile, non fosse per quelle persone di buona volontà che
tengono in piedi il BelPaese nonostante i politicanti che si trova a dover
sopportare, e talvolta cerca di linciare, non del tutto ingiustificatamente,
come è accaduto a Pescara, seppur sempre e comunque deprecabile è l’uso della
violenza. La scuola italiana non è più quella descritta da Sciascia, quella
della fame, di soprusi inenarrabili, della mancanza del necessario per vivere. È
però una scuola dove l’analfabetismo è considerato un dato trascurabile, tutto
sommato, sono ragazzi, sono esuberanti. Gli insegnanti sono esasperati, sia per
le ore di fiato che metterebbe a dura prova le corde vocali di un soprano, sia
per i continui colpi contro l’istituzione da parte dello Stato stesso, un
paradosso, ovvero di quella istituzione di cui la scuola sarebbe il primo
baluardo, la trincea sulla linea del fuoco. Quello che fa sorridere amaramente,
molto amaramente, è leggere gli articoli sulla scia delle denunce di Tullio De
Mauro scritti in un italiano approssimativo, sciatto, denso non di senso e
significati, come quello sciasciano, bensì di errori, di refusi, di espressioni
d’uso comune ma che cozzano inevitabilmente contro quell’italiano che si cerca
di difendere, denunciandone la fondamentale assenza dal patrimonio culturale
medio.
Nessuno si stupì
quando negli anni ’90 un magistrato italiano mise sotto accusa l’intera classe
politica italiana parlando un italiano approssimativo, era già accettabile che
un magistrato, la cui azione è fondata in primo luogo sull’uso corretto,
burocratico quanto si vuole ma esatto, della lingua italiana. Una parola per la
legge può fare la differenza tra una vita vissuta in libertà e una trascorsa
nelle patrie galere. Che un magistrato non sappia l’italiano è più che grave, è
evidenza se non di reato quantomeno di inesattezza procedurale nella
distribuzione di titoli accademici e professionali. Come ha fatto quella
persona a diplomarsi, a laurearsi, specializzarsi, superare i concorsi in
magistratura con una conoscenza approssimativa della lingua italiana è
questione di non poco conto eppure fu completamente ignorata, totalmente
passata sotto silenzio. Nessun giornalista, molti tra i quali con conoscenze
linguistiche uguali se non inferiori a quelle del magistrato si pose il
problema, né tantomeno si chiese come mai quello stesso magistrato entrò
immediatamente dopo in politica e divenne il maggior oppositore dell’astro
nascente della nuova classe dirigente che nel frattempo aveva mutato nome e
poco altro. Politicamente parlando nessuno si è accorto di un altro cambiamento
e svilimento del linguaggio, quello attuato da un nuovo partito che rifiuta di
farsi chiamare col nome che la Costituzione impone a chi decide di presentarsi
alle elezioni, reiterando pratiche e modalità di un secolo fa, fino ad
introdurre nella comunicazione nazionale di massa verbi considerati giustamente
tabù o quantomeno inappropriati e di violenza inaccettabile quali ‘umiliare’, ‘zittire’.
È giusto che i
docenti universitari denuncino l’impossibilità di svolgere il proprio lavoro in
modo corretto quando invece di occuparsi del contenuto e della necessaria
capacità linguistica per esprimere concetti di maggiore approfondimento
culturale debbono correggere gli errori di ortografia nelle tesi. Si potrebbe
malignamente pensare che questo sia un atteggiamento ‘pilatesco’: se i laureati
sono al di sotto degli standard minimi europei non è colpa di università
organizzate in modo assurdo che rende inattaccabile il sistema di baronie
politiche e intellettuali che da secoli infiltra il mondo accademico, bensì
della scarsa preparazione di base degli studenti, colpa della scuola, del
governo. In fondo basterebbe inserire quale prerequisito per l’ingresso nelle
facoltà italiane la conoscenza della lingua, nient’altro che quello. Poi uno
sbarramento al secondo anno in cui venga controllato il rendimento scolastico,
numero di esami, partecipazione alle attività extra, votazione media, senza
ridurre gli esami, come è stato criminalmente fatto, a pezzettini di esami,
lezioncine, moduli e trasformare l’università in un esamificio in cui
ricercatori e dottorandi anziché dedicarsi alla ricerca, come sarebbe ovvio,
debbono trascorrere ore e ore a correggere tesine, a sopportare esami che tanto
fanno pensare alle interrogazioni del liceo, deresponsabilizzando ancor di più,
tante volte ce ne fosse stato bisogno, generazioni di giovani studenti e
impedendo di fatto l’accesso all’istruzione superiore agli studenti lavoratori,
non sempre ma spesso molto motivati.
La lettera di
protesta, sacrosanto grido di docenti e accademici fa un po’ pensare agli
insegnanti delle medie che dicevano che non era possibile cavar niente da
quelle zucche vuote, visto che i maestri li avevano mal preparati alle medie, e
a quelli del liceo che dicevano che non si poteva cavar niente da quelle zucche
vuote, visto che i professori delle medie li avevano mal preparati. Va bene che
la scuola, e purtroppo da qualche anno anche l’università, in Italia è una
beffa oltre che un danno a discapito di studenti, insegnanti e familiari e che
andrebbe riformata in modo serio evitando di distruggere bensì stimolando le
eccellenze ma la scuola di cui scriveva Sciascia era decisamente peggiore di
quella attuale e ha prodotto scrittori di inarrivabile levatura intellettuale. Forse
l’analfabetismo non è soltanto un problema scolastico ma sistematico, è un
problema che ha a che fare con la società e la scientemente costruita
desertificazione culturale in cui si trova in questo momento il Paese di
Michelangelo, Raffaello, Dante, Manzoni, Boccaccio, Bramante, Leonardo da
Vinci.
Questa ricetta è
ispirata alla semplicità e alla bellezza della propria cultura.
Ananas fresco
Arance
Mele
Olio
extravergine di oliva
Parmigiano
reggiano della Latteria sociale di Beduzzo Inferiore
Gomasio
integrale
Semi di zucca
Mandorle
A piacere aceto
balsamico di Modena dell’Aceteria Pedroni oppure Fruttaceto al melograno
Sbucciare la frutta e tagliarla in pezzi non troppo grandi e neanche troppo
piccoli, porre in una insalatiera, aggiungere i semi di zucca, il gomasio, le
mandorle affettate, eventualmente anche tostate in padella per qualche istante,
l’olio e i petali di parmigiano. Se piace, aggiungere aceto balsamico di Modena
oppure fruttaceto toscano.